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Le blog de Julien Salingue - Docteur en Science politique

À la recherche de la Palestine

Barack Obama, i diritti di Israele e i doveri dei Palestinesi


« Time for change ». Questo il martellante slogan di Barack Obama durante le primarie del Partito democratico. Eppure… Poche ore dopo l’annuncio ufficiale della sua vittoria nei confronti di Hillary Clinton, Obama ha pronunciato un discorso che non è passato inosservato, in occasione dell’annuale conferenza dell’American Israel Public Affairs Committee (AIPAC), la più potente lobby filo-israeliana degli Stati Uniti. Un esame di questo discorso mostra che se Obama adotta una posizione di « rottura » in rapporto all’Amministrazione Bush per quanto riguarda la politica statunitense nel Medio Oriente, caldeggiando in particolare il progressivo disimpegno dal pantano iracheno, si palesano notevoli elementi di continuità specialmente sulla questione palestinese.

In questa sede, non si tratta di effettuare un’analisi esaustiva dei propositi di Obama e di trarne delle conclusioni definitive sulla sua visione della politica estera statunitense. Il discorso all’APAIC di un candidato in campagna elettorale, e dunque in cerca di elettori, non basta a riassumere il suo progetto. Qui dunque mi accontenterò di provare a sintetizzare e a commentare gli elementi del discorso che tirano in ballo direttamente la questione palestinese e di mostrare che, lungi dal prendere le distanze dalle posizioni politiche dell’attuale Presidente, Obama le condivide e, in una certa misura, va addirittura oltre, in un sostegno incondizionato ad Israele a detrimento delle rivendicazioni nazionali dei Palestinesi.


Genocidio ebreo, "dunque" Stato di Israele

Nella prima parte del suo discorso, Obama spiega le ragioni per cui la sua posizione è quella di « vero amico di Israele ». Esse sono legate al suo rapporto personale con il genocidio ebreo. Suo nonno e suo prozio avevano combattuto in Europa durante la seconda guerra mondiale. Il prozio « faceva parte della 89a Divisione di fanteria, i primi soldati americani ad arrivare in un campo di concentramento nazista ». Un prozio che, è facile da capire, ritornò dall’Europa « in stato di choc ».

A quell’esperienza familiare si è aggiunta una visita di Obama al memoriale del genocidio a Gerusalemme, Yad Vashem, nel corso della quale egli ha potuto vedere « delle foto che non si cancellano mai dalla vostra memoria ». Chiunque abbia avuto l’occasione di vedere le foto alle quali egli si riferisce o di visitare i campi di sterminio condividerà il giudizio del candidato Obama.

Ma le conclusioni che ne trae Obama ed il seguito della sua argomentazione sono nettamente più contestabili : « Ho appreso l’orrore dell’Olocausto e la terribile urgenza che esso ha conferito alla necessità di effettuare il viaggio di ritorno da voi in Israele ». Senza grandi giri di parole, il senatore dell’Illinois giustifica il progetto sionista e la creazione dello Stato d’Israele in nome degli orrori perpetrati dai Nazisti e ricorda che « fu solo pochi anni dopo la liberazione dai campi che David Ben Gurion proclamò la fondazione dello Stato ebraico di Israele ».
Se è vero che lo Stato d’Israele è stato ufficialmente fondato nel 1948, è storicamente falso ed intellettualmente disonesto giustificare il progetto sionista in nome del genocidio.

Storicamente falso perché il progetto di stabilire uno Stato ebraico in Palestina risale alla fine del XIX secolo ; perché la dichiarazione Balfour, che affermava il sostegno della Gran Bretagna all’iniziativa sionista è datata 1917 ; perché la prima rivolta degli Arabi palestinesi contro la colonizzazione avvenne nel 1936. Eppure Obama sembra saperlo, poiché afferma che « la fondazione di Israele è stata giusta e necessaria, in quanto radicata in secoli di lotta e in decenni di paziente lavoro ». Dunque, un candidato che non è neppure in contraddizione.

Intellettualmente disonesto, perché la presentazione della fondazione dello Stato di Israele come logica conseguenza del genocidio apre la porta ad ogni amalgama e vieta in particolare a chiunque, sotto pena di essere accusati di negazionismo, di rimettere in questione la legittimità dello stabilirsi di uno Stato ebraico in un territorio popolato in maggioranza da non ebrei. Obama va anche più in là, mettendo sullo stesso piano, quando parla della sua intransigenza verso tutto ciò che tocca la « sicurezza di Israele », il suo rifiuto di ogni concessione « mentre ci sono ancora delle voci che osano negare l’Olocausto » e « [mentre] dei razzi si abbattono su Sdérot ». Chiunque comprenderà che mischiare il negazionismo con i lanciatori di razzi non è solo disonesto, ma pericoloso.

La manovra è classica e l’argomentazione è nota. È comunque significativo che Obama le riprenda per suo conto e ne faccia la prima parte del suo discorso, quella che pone il quadro del resto delle sue affermazioni circa i suoi progetti sul Medio Oriente. Non si tratta solo di soddisfare un uditorio in vista di ottenere dei voti preziosi. È una collocazione ideologica che permette di giustificare implicitamente la politica israeliana e le sofferenze subite dai Palestinesi in nome di un crimine che questi ultimi non hanno commesso.


I diritti degli uni e i doveri degli altri

Obama rivendica una continuità tra la sua collocazione verso Israele e quella del Presidente Bush pur affermando, come vedremo, di non trarne le stesse conclusioni pratiche : « Da molto tempo sono fiero di far parte di un consesso forte e bipartisan che sta a fianco d’Israele contro tutte le minacce. È un impegno che condividiamo l’uno come l’arto, John McCain ed io, perché il sostegno ad Israele, in questo paese, trascende i partiti ».

Per illustrare semantica questa continuità e questo sostegno indefettibile, Obama fa riferimento 20 volte alla « sicurezza di Israele » e 11 volte al « terrorismo » o ai «terroristi» che la minacciano. Ed è precisamente su a questi temi che porta la sua critica all’amministrazione repubblicana : egli in effetti denuncia « l’idea falsa e fallace seconda la quale la politica estera americana, in questi ultimi anni, avrebbe reso più sicuro Israele ». Al contrario, l’ambiente in cui evolve lo Stato d’Israele è divenuto sempre più ostile, specialmente a causa della conduzione della guerra in Iraq che è un errore, secondo il candidate democratico, perché ha contribuito a destabilizzare la regione e a rafforzare il terrorismo. Ma non perché, come certi faranno notare, sono morti centinaia di migliaia di Iracheni e migliaia di soldati statunitensi…

Le posizioni di Obama sulla situazione irachena sono note : egli si era opposto alla spedizione militare ed oggi caldeggia un progressivo ritiro delle truppe USA, man mano che la situazione andrà stabilizzandosi. Meno si sa della sua visione della regolazione del « conflitto israelo-palestinese ». Egli dichiara il suo obiettivo : « due Stati, uno Stato ebraico di Israele ed uno Stato palestinese, che vivano fianco a fianco in pace e in sicurezza ». In questo, egli non è per nulla diverso da Bush. Il suo disaccordo sembra essere altrove : « nel 2006, mi sono opposto alla tenuta di elezioni in cui era candidato Hamas. Ma l’attuale amministrazione ha precipitato le cose ed il risultato è che Gaza è oggi controllata da Hamas e su Israele piovono razzi ».

Obama, che decisamente non è in contraddizione, perché alcuni istanti prima ha sostenuto che non si può rimproverare Israele, « la sola democrazia del Medio Oriente », ricorda con fierezza (e tra gli applausi) di essersi levato contro la tenuta di elezioni democratiche in territorio palestinese nel gennaio 2006. Si è in diritto di interrogarsi sui principi che governano un uomo politico il quale ritiene che quando degli avversari sono in procinto di vincere delle elezioni, queste non si debbano tenere.

Egli prosegue con un tono che, nel passaggio, flirta allegramente con il paternalismo, spiegando che « il popolo palestinese deve (« must ») comprendere che il progresso non sarà guidato né da falsi profeti, né dall’estremismo, né dallo storno dell’aiuto estero » (la sottolineatura è mia).

Questi « doveri » del popolo palestinese fanno eco ai « diritti » di Israele. Le due sole menzioni del termine « diritto » (« right »), nell’insieme del discorso si rapportano, in effetti, al « diritto all’esistenza » e al « diritto alla sicurezza » di Israele.

La « Sacrosanta sicurezza di Israele » (secondo i suoi termini) è l’elemento più che determinante della visione del senatore dell’Illinois. Logico corollario : i Palestinesi non hanno « diritto ad uno Stato » ma hanno « bisogno di uno Stato » (« Palestinians need a State »). In effetti, non è perché i Palestinesi hanno dei diritti nazionali che Obama difende l’idea di « due Stati che vivano fianco a fianco » ma perché, per Israele, « una reale sicurezza può partire solo da una pace duratura », la quale passa per la creazione di uno Stato palestinese.…

Alla luce di questi elementi, si può comprendere il senso di una frase a prima vista oscura, nella quale i Palestinesi sono assenti dal regolazione di una questione che pure li riguarda al massimo : « Quando sarò presidente, lavorerò per aiutare Israele a realizzare l’obiettivo dei due Stati ».

Due Stati per Israele e nemmeno uno per i Palestinesi.


Barack Obama : per Israele un amico « migliore » di Georges Bush ?

In ogni caso, è quello che alcuni commentatori e numerosi Palestinesi dei territori occupati hanno ricavato dal discorso davanti all’APAIC. Un esame delle sue proposte concrete sembra, in effetti, andare in questo senso o, almeno, indicare che il Senatore Obama intende riprendere, irrigidendole, le posizioni dell’attuale Presidente.

Sulla linea di Georges Bush, il candidate democratico intende innanzi tutto rafforzare la cooperazione militare tra gli Stati Uniti ed Israele : nel corso dei prossimi 10 anni, egli promette 30 miliardi di dollari di aiuti diretti per il solo campo della sicurezza. Si tratta di «garantire il vantaggio militare qualitativo per Israele [e di] fare in modo che Israele possa difendersi contro qualsiasi minaccia – proveniente da Gaza fino a Teheran » (sottolineatura mia).

Ma Obama non si ferma a metà strada e propone di superare quanto fatto dall’Amministrazione repubblicana : « Poi potremo rafforzare la nostra cooperazione in materia di missili da difesa. Dovremmo esportare equipaggiamento militare verso Israele, che è nostro alleato, alle stesse condizioni di tutti i paesi della NATO ». Israele, dunque, rimarrà un partner « non come gli altri », questo statuto particolare dovrà essere rafforzato e in una formula che potrà meravigliare più di qualcuno. Obama riprende per suo conto l’idea che Israele è uno Stato che ha più diritti degli altri, uno Stato al di sopra delle istituzioni internazionali : « mi leverò sempre per sostenere il diritto di Israele a difendersi, all’ONU e nel mondo intero ».

Per quanto riguarda i « negoziati », Obama incoraggia Israele e i Palestinesi a fare degli «sforzi» : Israele dovrà « adottare le misure appropriate – coerentemente con la sua sicurezza – al fine di migliorare la libertà di spostamento dei Palestinesi e la situazione economica in Cisgiordania ed astenersi dal costruire nuove colonie ». Nessuna pretesa eccessiva, insomma : non una parola sul blocco di Gaza, « misure appropriate » a discrezione di Israele, senza minimamente citare il problema dei 600 checkpoint che frammentano e soffocano la Cisgiordania, e un’esplicita tolleranza verso la « naturale crescita » delle colonie già esistenti, poiché si tratta solo di non costruirne di nuove.

Gli « sforzi » chiesti ai Palestinesi e agli altri « partner arabi » sono di tutt’altro ordine : Hamas, se vuole essere associato ai negoziati, senza garanzia sul loro contenuto, deve «rinunciare al terrorismo (…), riconoscere il diritto di Israele all’esistenza e (…) rispettare gli impegni firmati ». Impegni che Israele non rispetta dal giorno della loro firma, proseguendo la colonizzazione. Una colonizzazione che a immagine della politica israeliana, rimette in causa ogni giorno di più il « diritto all’esistenza » di un ipotetico Stato palestinese.

Mentre gli Stati Uniti esporteranno in Israele ulteriore materiale militare, l’Egitto dovrà impedire che entrino armi nella Striscia di Gaza. Infine, l’insieme dei governi arabi dovrà «prendere delle misure di normalizzazione delle loro relazioni con Israele ». Avete detto "due pesi, due misure" ?

Per quanto concerne più direttamente i « due Stati », la maggior parte delle proposte di Obama sono le stesse di Georges Bush, poiché sono quasi identiche alla contenuto della « carta stradale ». Egli non fa alcun riferimento alle risoluzioni dell’ONU, non menziona l’esistenza di « territori occupati » ed, evidentemente, non parla dei profughi. Egli ventila solo la necessità della fondazione di uno « Stato [palestinese] che sia contiguo e coerente», dalle caratteristiche perlomeno incerte e senza precisione sulle frontiere, sia sul loro tracciato che sulla loro natura...

In compenso, per Israele le cose sono molto più chiare : « Ogni accordo concluso con il popolo palestinese dovrà preservare l’identità ebraica dello Stato d’Israele, con frontiere sicure, riconosciute e difendibili ». La menzione dell’« identità ebraica dello Stato d’Israele» ha due implicazioni principali, che tutti all’AIPAC e in Israele hanno compreso : i Palestinesi del 48, i quali rivendicano che lo Stato ebraico sia « uno Stato di tutti i suoi cittadini », continueranno ad essere discriminati. E i profughi, che compongono la maggioranza del popolo palestinese, rimarranno dei profughi.

Infine, per quanto riguarda Gerusalemme, Obama arriva ad affermare che « Gerusalemme resta la capitale di Israele e dovrà restare indivisibile ». Il candidato democratico, contro tutte le risoluzioni dell’ONU, riconosce dunque ufficialmente Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele ed esclude ogni futura divisione di sovranità sulla città. Eppure si tratta, come per il diritto al ritorno, di una delle rivendicazioni principali e « storiche » dei Palestinesi. Per questo, anche Mahmud Abbas, poco incline a protestare contro la classe dirigente statunitense, si è levato contro le affermazioni di Obama su Gerusalemme. Quest’ultimo, alcuni giorni dopo il suo discorso all’AIPAC, ha tentato di correggere quanto affermato senza tuttavia ventilare una qualsiasi sovranità palestinese su Gerusalemme, compreso su quel che resta di « Gerusalemme-Est ». E, dunque, senza convincere chicchessia, a parte il governo israeliano.


Conclusione : "Time for change", aveva detto...

Il discorso di Obama stabilisce una continuità tra il genocidio ebreo e le future « frontiere » dello « Stato palestinese ». La sicurezza dello Stato di Israele in quanto Stato ebraico, presentato come naturale risposta alla barbarie nazista, è al di sopra di tutto : al di sopra dell’onesta intellettuale, al di sopra del diritto internazionale, al di sopra dell’idea di eguaglianza, di equità o di giustizia e, soprattutto, al di sopra dei diritti nazionali di un popolo che pure, dopo 60 anni, non ha smesso di rivendicarli. Quanto a coloro che contestano il carattere sacro della sicurezza di Israele, essi sono indirettamente assimilati a dei negazionisti.

Se Obama suggerisce una « soluzione » per i Palestinesi, lo fa solo nella misura in cui essa può rafforzare Israele. Non è per attaccamento al diritto all’autodeterminazione dei popoli che egli propone di creare l’entità palestinese chiamata « Stato ». Lo fa per puro pragmatismo e al solo scopo di garantire la sicurezza del miglior alleato degli Stati Uniti in una regione dalle importantissime implicazioni geostrategiche.

Obama non rompe con la logica di Georges Bush ma la rafforza, anche se non adotta come quest’ultimo una retorica da guerra di civiltà, anzi un immaginario messianico come nel suo discorso alla Knesset in occasione del 60 anni di Israele. Ma le conseguenze pratiche sono le stesse : subordinando ogni regolazione della questione palestinese alla sicurezza di Israele, Obama si oppone frontalmente ai diritti fondamentali e alle rivendicazioni dei Palestinesi.

Chiunque abbia passato qualche ora nei territori palestinesi sa ciò che significa il termine « sicurezza di Israele ». E’ in suo nome che Israele ha occupato la Cisgiordania e Gaza nel 1967, che I Palestinesi ancor oggi non possono circolare liberamente a causa delle 600 barriere che frammentano la Cisgiordania, che vengono commessi omicidi extragiudiziali, che nella Striscia di Gaza assediata un milione e mezzo di Palestinesi muore lentamente, che è stato costruito il Muro, che delle copie sposate sono separate perché uno dei due risiede a Gerusalemme-Est, che l’economia palestinese non può svilupparsi o che in Israele sono rinchiusi circa 12 000 prigionieri politici palestinesi.

Gli abitanti dei territori occupati e i profughi all’estero hanno dunque tutte le ragioni per guardare con inquietudine al loro futuro. Il discorso davanti all’APAIC, anche se non deve essere considerato "il" progetto di Obama per il Medio Oriente, indica comunque che egli non intende esercitare pressioni si Israele affinché i diritti nazionali dei Palestinesi trovino soddisfazione. Si tratta, piuttosto, di esercitare pressioni sui Palestinesi perché essi soddisfino il « diritto alla sicurezza » di Israele. Malgrado l’ipotesi del progressivo ritiro delle truppe dall’Iraq, tutti sanno che, su questa base, nella misura in cui la questione palestinese non sarà regolata (e senza citare le appena velate minacce di Obama contro l’Iran...), il Medio Oriente rimarrà un focolaio di esplosioni di grande portata e nessuna « stabilità » potrà essere raggiunta, per non parlare di giustizia, se Barack Obama diverrà il 44° Presidente degli Stati Uniti.


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